La versione di Mike – Polo Nord

Sono orgoglioso di esserci andato, anche perché i ghiacci del Polo Nord vanno scomparendo, e fra qualche anno dicono che ci sarà solo il mare.
Mi ero già avvicinato a quelle latitudini durante un viaggio a Stoccolma nella primavera del ’78, e sin da allora il progetto di spedizione al Polo divenne per me il sogno proibito di una grande avventura.
L’idea della spedizione nacque dalla proposta di Lino Zani, che aveva concordato con papa Wojtyla di portare una croce al Polo Nord e una al Polo Sud per unire simbolicamente i due poli.
L’occasione di organizzare l’intera operazione arrivò con le commemorazioni per il centenario della prima spedizione al Polo Nord, organizzata nel 1898 da Luigi Amedeo di Savoia, il famoso “duca degli Abruzzi”, e patrocinata da re Umberto I.
Lino Zani era molto intimo con papa Wojtyla, che lo considerava come un figlio. È noto nell’ambiente come “il maestro di sci del papa” perché più volte, spesso in incognito, Giovanni Paolo II, che era un grande appassionato di montagna e di sci, andava a passare qualche giorno nella sua capanna all’Adamello. L’aveva scoperta per caso, grazie a due sacerdoti polacchi che durante una loro gita estiva si erano fermati da lui. Il panorama era così bello e la località così lontana da tutti, che gli chiesero se se la sentisse di ospitare una grande personalità. Fu una grande sorpresa per Lino, quando vide entrare in carne e ossa nella sua capanna nientemeno che il pontefice.
Il papa, quando arrivava da lui per le vacanze indossava subito gli abiti da montanaro, con tanto di camicia a scacchi, pantaloni alla zuava e scarponi chiodati, e lì passava, a suo dire, le più belle e spensierate giornate dell’anno. Lino Zani possiede delle fotografie che non ha mai mostrato alla stampa perché non voleva che se ne facesse un uso improprio. Io le ho viste.
“Voi siete come la mia famiglia” diceva Wojtyla agli anziani genitori di Lino. Pranzavano e cenavano insieme, dopodiché il papa andava a riposare dopo aver fatto dire le preghiere a tutti. Ogni mattina prima dell’alba, quando era ancora buio, Lino e il pontefice partivano con gli sci ai piedi e si allontanavano di qualche chilometro. Il papa aveva un posto prediletto dal quale dominava tutte le montagne e i ghiacciai. Rimaneva lì per tre, quattro ore in contemplazione. Lino invece si allontanava di parecchie centinaia di metri, per lasciare che il papa si sentisse veramente solo con la natura e con il cielo. Lo accompagnava ogni tanto anche il suo segretario personale, padre Stanislao, che gli stette a fianco per decine di anni, tanto che possiamo considerarlo in un certo senso un suo discepolo, ed è stupefacente vedere come negli anni egli abbia raccolto anche tanti aspetti caratteriali di Wojtyla. Stanislao ora è tornato a Cracovia, nel ruolo di arcivescovo, ed è stato nominato addirittura cardinale. Chissà che un giorno non divenga papa lui? Mi ha anche invitato ad andarlo a trovare con Lino Zani. Evidentemente ha tanta nostalgia dell’Italia.
Grazie a Lino, io, Daniela e i miei figli abbiamo avuto la possibilità di essere ricevuti in privato dal papa. È una data che non dimenticherò, il 19 giugno del 1997.
La presenza del papa trasmette un’emozione difficile da tradurre in parole. Emanava una specie di carisma che mi piegò le gambe, facendomi seriamente riflettere davanti al mistero e al senso del sacro.
Mi sono intrattenuto qualche minuto con lui parlando proprio di montagne e di neve.
L’ultima volta che lo vidi, la sua salute era già malferma e non dimenticherò mai quello che ci disse accomiatandosi da noi prima di aprire la porta per rientrare nel suo studio: “E adesso avete uno sciatore in meno”.
Quando partì la spedizione al Polo, nella primavera del 2001, si unirono a noi una quarantina di guide alpine, giornalisti specializzati e famosi esploratori, oltre naturalmente ai tecnici incaricati delle riprese per conto della televisione. Andammo tutti insieme in visita al Vaticano per ritirare la croce da portare al Polo. In quell’occasione portai al papa in dono un paio di scarponi da discesa bianchi. Gli luccicarono gli occhi dalla felicità.
Per andare al Polo fummo costretti a passare prima dalla Russia perché le autorità preposte a rilasciarci il permesso, dovendo noi percorrere parte della Siberia, volevano incontrare uno per uno i componenti della spedizione. Ci convocarono a San Pietroburgo, dove c’è il più famoso museo del mondo dedicato al Polo. Vi sono conservate tutte le testimonianze, le fotografie, i materiali, e l’equipaggiamento di quelli che ci sono stati. Trovandomi lì ne ho approfittato per visitare il famoso museo dell’Ermitage.
La prima tappa la facemmo in una tipica cittadina della Siberia, Katanga. Praticamente tutto l’anno è coperta dalla neve e dai ghiacci. Le donne sono bellissime, e ci faceva una grande impressione vederle passare, alte e snelle, tutte col colbacco e con delle pellicce lunghe fino ai piedi.
Ebbi modo di toccare addirittura un mammut. Uno scienziato l’aveva trovato casualmente intatto, immerso nel ghiaccio, durante una sua spedizione. Per estrarlo avevano tagliato l’enorme blocco di ghiaccio che lo conteneva, e con un elicottero lo avevano trasportato in una grotta lungo il fiume di Katanga, dove la temperatura tutto l’anno era sotto lo zero. Mi dissero che ci sarebbe voluto molto tempo prima di liberarlo completamente dal ghiaccio e dai sedimenti di terra in cui era avvolto. Come dei certosini lo raschiavano piano piano con degli scalpelli per non danneggiarlo. Avevano già scoperto parte del cranio superiore e c’era ancora la peluria che toccai con mano prendendomi una grande sgridata dai guardiani.
Da Katanga ci trasferimmo con un enorme elicottero militare, adatto al trasporto di una ventina di passeggeri. Noi eravamo più di quaranta, il gruppo dall’Italia più le guide locali che ci avevano assegnato per precauzione ed eventuale difesa dall’assalto degli orsi, e ci ammassammo tutti dentro uno sopra l’altro in posizione scomodissima.
Purtroppo i russi ci costrinsero a lasciare a terra i nostri cani da slitta, che aveva portato con sé il famoso allevatore membro della nostra spedizione, Dodo Perri. Con alcuni di questi anche lui aveva partecipato alla famosa Iditarod. Dissero, lasciandoci di sasso, che non li potevamo portare al Polo perché temevano che avrebbero trasmesso delle malattie agli altri animali del luogo.
Atterrammo in un avamposto militare russo denominato Schredni, ormai abbandonato definitivamente dai soldati dopo la fine della Guerra fredda. Il campo era costellato di camion, carri armati, cannoni e vettovaglie che erano state lasciate lì in fretta e furia durante lo smantellamento perché non valeva più la pena di riportarle indietro. Vi vivevano due sole persone con un bambino, addette ai controlli meteorologici. Ci raccontarono il dramma della loro vita e il motivo per cui erano rimasti lì mentre tutti i militari se ne erano andati.
Dopo anni e anni di impegno con lo Stato erano riusciti a raggranellare una cifra sufficiente per lasciare Schredni e andare a vivere in quello che per tutti i russi rappresentava il sogno della vita: la Crimea. Purtroppo, mentre si accingevano ad andare via, pagarono lo scotto della grande crisi economica in Russia, che svalutò completamente il rublo, e si ritrovarono con un mucchio di carta straccia, costretti a rinunciare al loro sogno.
Avevano un bambino di dieci anni che quando noi arrivammo stava festeggiando il suo compleanno. Da quando era nato non aveva mai potuto giocare con altri bambini. I suoi unici compagni erano i loro cani e frequentava la scuola via radio. Provai molta tenerezza per lui, mi fece tornare in mente tutta la mia solitudine da bambino.
Mentre dormivamo nella loro casa fummo svegliati da strani rumori. C’era un grande orso bianco con il suo cucciolo che, attirato dal profumo del cibo, spingeva la porta d’ingresso per cercare di entrare.
Ci fermammo lì per qualche giorno. Di tanto in tanto uscivamo e facevamo delle lunghe camminate con gli sci.
Durante una di queste escursioni, vedemmo arrivare in distanza un puntino che piano piano cresceva venendo verso di noi. Quando ci raggiunse capimmo che era un uomo, un cacciatore con la barba e i capelli lunghissimi e un’enorme slitta trainata da una decina di cani, sulla quale trasportava le più belle pellicce che si possano immaginare. Il classico personaggio da film di avventure. Uno di quei cacciatori che tutti gli anni vanno in giro da soli per le zone polari per poi tornare in città e vendere le pelli. Gli comprai una meravigliosa pelliccia di volpe argentata per dieci dollari, la conservo ancora nella mia casa di montagna. Pensammo di fargli subito un’offerta con un bel compenso in dollari affinché ci cedesse la slitta e i cani per qualche giorno per poter trasportare le numerose masserizie che avevamo al seguito, e lui accettò immediatamente.
Con la tappa seguente arrivammo al confine della terra di nessuno, una località stranamente denominata dai russi Borneo. Da quel punto in avanti non c’era più controllo e ognuno avanzava a proprio rischio e pericolo. A Borneo c’è un’enorme piattaforma di ghiaccio dove possono atterrare con grande facilità addirittura gli aerei a reazione. Stavano costruendo un gigantesco hangar, e chiesi quale fosse la ragione di quella struttura. Mi spiegarono, e penso che questa iniziativa sia tuttora in atto, che un’importante agenzia turistica europea stava organizzando dei viaggi a pagamento per chi voleva visitare il Polo, al “modesto” prezzo di venticinquemila dollari. Partendo da Parigi ci si sarebbe fermati al Borneo, poi ci sarebbe stato il trasferimento diretto al Polo Nord su degli elicotteri speciali, per festeggiare con caviale e champagne e permanenza di un paio d’ore un’avventura che costituisce il sogno impossibile di tanti bambini. Senza fare il minimo sforzo! Se penso alle sofferenze immani che dovette superare il duca degli Abruzzi solo cento anni prima per raggiungere il suo traguardo!
Di notte riposavamo nelle tende che avevamo portato dall’Italia. E dai trenta gradi sotto zero di giorno passavamo a oltre quaranta sotto zero di notte. Dormivamo nei sacchi a pelo, che venivano trasformati in vere e proprie saune dal calore del nostro corpo. Ognuno di noi aveva una speciale bottiglia nella quale fare pipì, per evitare di uscire dal sacco a pelo passando da un grande calore ai quaranta gradi sotto zero. Purtroppo però la bottiglia non era sufficiente, perché nelle zone polari si consiglia di bere molta acqua, almeno cinque litri al giorno. Perciò, nonostante le precauzioni ci si vedeva costretti a uscire dal sacco. Per i bisogni più grossi il problema era ancora più grave. È facile immaginare la sensazione di scoprire le proprie parti intime a quaranta gradi sotto zero! Oltretutto bisognava farlo in pochi secondi con il sistema del giù e su. Prendendo a calci anche i cani siberiani che venivano a curiosare!
Al nostro seguito papa Wojtyla aveva mandato un rappresentante del Vaticano, monsignor Andreatta, che tutti i giorni diceva la messa. Le sue erano cerimonie uniche ed emozionanti, che vìvevamo tutti insieme attorno a degli altari di ghiaccio che costruivamo di volta in volta, e spesso io e Lino Zani facevamo i chierichetti.
Fu precisamente il giorno di Pasqua del 2001 che finalmente raggiungemmo il Polo Nord. E lo ricordo come un giorno costellato da una serie di aneddoti veramente strani.
Accesi una fiaccola che mi avevano dato per festeggiare, ma per l’emozione la spezzai in due e un pezzo rovente mi cadde su una mano. Mi bruciò il guanto e mi lasciò un segno che porto tuttora.
Monsignor Andreatta disse la messa che andò in onda in collegamento via satellite dal Polo, fatto storico, con sullo sfondo la croce che il papa ci aveva dato. E io raccontai al pubblico italiano le dinamiche della nostra avventura.
C’è mancato poco però che il pilota dell’elicottero che era venuto a recuperarci ci abbandonasse sulla banchina di ghiaccio per via dei primi segnali dello scioglimento. L’elicottero era talmente pesante che cominciava a sprofondare.
Con ampi gesti ci faceva segno di raggiungerlo, e anche le guide ci invitavano ad affrettarci, ma monsignor Andreatta, che stava dicendo la messa, non voleva interrompere e proseguiva dicendo: “Un momento, un momento, devo ancora dare la benedizione finale”.
Fummo costretti a portarlo via quasi di peso con il calice e l’ostensorio ancora in mano, lo spingemmo dentro l’elicottero, io saltai dentro per ultimo mentre il pilota stava già per staccarsi dal suolo. Chi però non riuscì ad arrivare in tempo per salire fu il povero Dodo Perri. Ospitare anche lui sarebbe stata un’operazione complicata, dovendo caricare anche i cani. Rimase lì per quattro o cinque ore in attesa di essere recuperato nel giro successivo. Ma gli fecero buona compagnia le numerose bottiglie di champagne che avevamo portato per festeggiare il ritrovamento dell’esatta locazione del Polo Nord. Cosa abbastanza complicata perché il pack, essendo in continuo spostamento, rende quasi impossibile la sosta nel punto geografico preciso per più di qualche secondo. Quando credevamo di essere giunti alla meta, dopo qualche istante ci eravamo di nuovo spostati.
Dodo si tenne anche caldo bevendo il caffè bollente della recente invenzione del mio sponsor Giulio Malgara. Per la spedizione ci aveva fornito una grande quantità dei famosi bicchierini di plastica denominati “Caldo caldo”, bastava strappare il coperchio che per reazione il liquido interno si scaldava. Per qualche tempo li vendettero anche negli stadi per il campionato di calcio.
Disgraziatamente Dodo Perri, che era un grande spregiudicato e non badava ai pericoli pur di vivere grandi avventure, è successivamente morto in seguito a un incidente subacqueo. Lo ricorderemo sempre come un bravo ragazzo, motivato da una passione straordinaria, che aveva sacrificato tutto pur di vivere con i quaranta cani del suo allevamento, e viaggiare da un continente all’altro per partecipare alle corse con le slitte.
Purtroppo non potemmo lasciare sul posto la croce per la quale era stata organizzata la spedizione, perché, verificando lo stato di scioglimento avanzato dei ghiacci, anche su consiglio delle guide, temevamo che non avrebbe retto in piedi e che sarebbe finita in acqua molto presto. Dovetti riportarla con me a San Pietroburgo. Chi va a visitare il museo del Polo la può vedere in bella mostra con il racconto e le fotografie della nostra impresa.

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